Esclusa la violenza privata per chi installa le telecamere nel muro perimetrale della sua casa, anche se le usa pure per sorvegliare gli abitanti e denunciarli se parcheggiano male l’auto o non raccolgono le deiezioni dei cani. E non importa se la sensazione di essere costantemente sotto l’occhio del “Grande fratello” induce gli abitanti della zona a modificare le abitudini scegliendo anche percorsi alternativi per rientrare dribblando le telecamere. L’uso strumentale dei sistemi di sorveglianza, anche con il sonoro, che era bastato ai giudici di merito, in primo grado e in appello, a condannare i ricorrenti per violenza privata, non è sufficiente per la Cassazione (20527) per contestare il reato.
Per la Suprema corte, infatti, la videosorveglianza, debitamente segnalata, è lecita perché finalizzata a proteggere i propri beni e l’incolumità personale e della famiglia. E anche se il monitoraggio costante può condizionare i movimenti del cittadino, consentendogli comunque di selezionare i comportamenti da tenere, questo va considerato come il risultato di un equilibrio e di un compromesso tra libertà individuali ed esigenze di sicurezza sociale. I giudici accolgono dunque il ricorso degli imputati, malgrado fosse dimostrato che gli abitanti della zona, alcuni dei quali si erano costituiti parti civili, erano costantemente controllati nelle loro attività lavorative e nei loro movimenti. Controlli che si traducevano, a volte, in esposti per comportamenti irregolari o presunti tali : dalle esalazioni provenienti dai laboratori della zona, agli schiamazzi, dai “bisogni” dei cani non raccolti, alla macchina in doppia fila. La Corte d’appello, confermando la condanna di primo grado, aveva sottolineato che l’uso strumentale delle telecamere, aveva finito per condizionare le azioni di alcune persone. Ma, ad avviso della Suprema corte, non si può parlare di violenza privata. Un reato che scatta solo con l’uso di qualunque mezzo sia utile «a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere, anche in una violenza “impropria” che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione». La Cassazione ricorda che per il reato, non è necessaria una violenza verbale o esplicita ma basta qualunque comportamento o atteggiamento «idoneo a incutere timore o a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, finalizzato ad ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare o omettere qualcosa». Per i giudici di legittimità non è questo il caso. L’uso delle telecamere era lecito e i condizionamenti – come l’”accortezza” di cambiare strada per sottrarsi alle riprese – erano minimi «tali da non potersi considerare espressivi di una significativa costrizione della libertà di autodeterminazione». Per quanto riguarda l’intenzione, manifestata, di sporgere denuncia per i fatti illeciti catturati con le riprese, potrebbe integrare i reati di minaccia, molestia o ingiuria. Ma non la violenza privata.
fonte ilsole24ore.com